Sappiamo come Chateaubriand, a Torino nel 1803, venga "mediocremente impressionato dalla prima vista" della città, e la giudichi architettonicamente "un pò monotona".Quantunque lo stesso Settecento conosca già giudizi del genere a proposito d'un certo tipo di "costruito" eccessivamente geometrico l'affermazione di Chateaubriand è importante perchè mette implicitamente in discussione una delle condizioni-cardine del bello urbano settecentesco: quella della novità della fondazione, dalla quale il Visconte bretone non è, evidentemente, affatto commosso.
Il suo modo nuovo di guardare, si conferma, del resto a Lione, ch'egli trova una "cara città", ove "le rovine parlano ai posteri": (215) ancora quarant'anni dopo, un Dickens s'indugerà a ironizzare pesantemente, a Lione, sui "goticismi" della città.
Ciò non significa, tuttavia, che Chateaubriand abbia dimenticato la grande lezione civile dell'illuminismo. Così, accanto al brano in cui egli a Roma recupera il silenzio (così poco settecentesco, e soprattutto così poco illuminista) di certe strade e certe case, può benissimo starne un altro, di tenore solo apparentemente diverso:
«Torino e Milano hanno la regolarità, la pulizia, i marciapiedi di Londra e l'architettura dei più bei quartieri di Parigi: vi sono anche raffinatezze particolari: in mezzo alle strade, perchè il movimento delle vetture sia meno violento, si son poste due linee di pietre lisce, sulle quali scorrono le due ruote: così si evitano le asprezze del selciato» (216).
E' da questa nota che si genererà la lunga pagina di Stendhal, del 1816, sul modo in cui i Milanesi costruiscono la loro originale e comoda pavimentazione stradale (217).
Quanto alla questione del "gotico", abbiamo visto come Chateaubriand, già in questo 1803, si comporti al cospetto del Duomo di Milano, e abbiamo visto anche il discorso, più interessante ancora (dal punto di vista d'un incipiente storicismo), ch'egli fa a Villa Adriana a Tivoli. Innegabile però, sotto il profilo d'una completa rivalutazione del gotico, si tratta soltanto di passi iniziali, anche perchè continuano a persistere in questo Chateaubriand del 1803 evidenti debolezze settecentesche (stavolta di tipo specificamente neoclassico) magari per materiali da costruzione come il marmo. Al Museo Capitolino Chateaubriand infatti annota, per esempio:
«Colonna di alabastro orientale, la più bella conosciuta. Pianta antica di Roma su marmo: perpetuità della Città Eterna» (218).
Così, ciò ch'egli "vede" dall'alto del Campidoglio, sono tuttora soltanto le rovine di edifici classici, e non anche sovrastrutture medievali che, all'epoca, letteralmente intravedevano quelle rovine:
«Dalle finestre del Campidoglio si scopre tutto il Foro, i templi della Fortuna e della Concordia, le due colonne del tempio di Giove Statore, i rostri, il tempio di Faustina, il tempio del Sole, il tempio della Pace, le rovine del palazzo aureo di Nerone, quelle del Colosseo, gli archi di trionfo di Tito, di Settimio Severo, di Costantino; vasto cimitero dei secoli coi loro monumenti funebri e la data del loro decesso» (219).
Siamo insomma ancora in una fase di perplessità, per quanto riguarda il Medio Evo. Si legga quest'altro brano romano, in cui Chateaubriand, pur collegando correttamente la Roma papale al Medio Evo appunto, mostra tuttavia di apprezzare, di questa seconda Roma, più le architetture recenti che quelle dei cosiddetti "secoli bui":
«Non solo l'antica Italia è scomparsa, ma anche la medievale. Tuttavia la traccia delle due Italie è ancora ben segnata in Roma: se la Roma moderna mostra il suo S. Pietro e tutti i suoi capolavori, la Roma antica le oppone il Pantheon e le rovine; se l'una fa discendere dal Campidoglio i suoi consoli e i suoi imperatori, l'altra fa uscire dal Vaticano la sfilata dei suoi pontefici. Il Tevere separa le due glorie: posta nella stessa polvere, Roma pagana s'affonda sempre più nelle tombe, e Roma cristiana a poco a poco si rifugia nelle Catacombe d'onde è uscita» (220).
Comunque, anche questo Chateaubriand del 1803-1804 non è più, in senso stretto, uomo del Settecento. Mai il Settecento avrebbe osservato la campagna, e soprattutto la sua "architettura", come la osserva Chateaubriand sulla via fra Napoli e Roma:
«Ho veduto nei dintorni di Patria (l'antica Literno) alcune fattorie decentemente costruite; ognuna aveva nel suo cortile un pozzo ornato di fiori con due pilastri cinti da piante di aloe. In questo paese è innato il gusto dell'architettura, che rivela l'antica patria della civiltà e delle arti» (221).
Squarcio, dunque, notevole, se solo pensiamo che un'attenzione all'"architettura rurale", sarebbe riemersa in modo sufficientemente diffuso, nel nostro Paese, appena, negli anni Settanta del Novecento. Nè più settecentesco è Chateaubriand (che in questo peraltro si collega ad un Goethe e ad uno Humboldt) (222) quando, della campagna romana, scrive per esempio: «Voi crederete forse, mio caro amico (il corrispondente Fontanes) che nulla vi sia di più spaventoso che la campagna romana. Errereste assai, perchè essa invece ha una straordinaria grandezza e, vedendola, esclamiamo con Virgilio: "Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus,/Magna virum!". Se la studiate da economista, vi desolerà, se la contemplate da poeta o anche da filosofo, non vorreste forse che fosse altrimenti» (223).
Che sono affermazioni (anche queste ultime, che distinguono il "poeta" dal "filosofo" e dall'"economista") decisamente romantiche.
(215) CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, cit., p. 11.
(216) Ibid. p.20. In ambito cattolico, le cose non sarebbero andate sempre così. A parte casi ancora più celebri di avversione al progresso, negli anni sessanta dell'Ottocento la religione di LOUIS VEUILLOT, chiaramente infiammata dallo stesso Romanticismo, sarebbe giunta ad augurarsi che, così come Roma era stata lastricata (nel periodo napoleonico), qualcuno provvedesse a disselciarla, in modo che la gente che non possedeva robusti cavalli fosse di nuovo costretta, la sera, a restare a casa, "per conversare e pregare in famiglia".
(217) STENDHAL, Rome, Naples et Florence, cit., p. 83.
(218) CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, cit., p. 37.
(219) Ibid. p. 38.
(220) Ibid. p. 41.
(221) Ibid. p. 53.
(222) Vedere F. IENGO, Scrittori e metropoli fra Illuminismo e Romanticismo, cit., p. 24 e nota n.34 p. 42.
(223) CHATEAUBRIAND, Viaggio in Italia, cit., p. 59. Questo passo non sfuggirà a FRIEDRICH NIETZSCHE, il quale, in una nota nomina de Brosses, Fènelon a proposito del gotico, Victor Hugo quanto al culto del passato incontaminato, Delacroix, Gautier e Wagner per l'avversione a Roma, e Shakespeare, Byron e George Sand per l'amore per Venezia, scrive di Chateaubriand che "in una lettera del 1803, al signor di Fontanes, fornisce la prima impressione della campagna romana" (cfr.Frammenti postumi, cit., p. 217).
Theorèin - Giugno 2007